Boldini, maestro d’eleganza

Boldini, maestro d’eleganza

da www.ilsole24ore.com del 26 marzo 2019
di Fernando Mazzocca

Nella sua lunghissima carriera, Boldini è stato un vero dominatore della scena artistica tra due secoli. Artista fecondo e versatile, ha attraversato e interpretato stagioni diverse, cambiando genere e stile, sino ad approdare a quella elegantissima cifra del ritratto mondano cui si deve lo strepitoso successo internazionale, la solidità delle sue quotazioni sul mercato e quella affezione da parte del pubblico che non lo ha mai abbandonato, anche quando la critica lo liquidava come un abile mestierante senz’anima, più un brillante couturier che un pittore. I primi a non perdonargli il successo in quella scena parigina, in cui al contrario di lui non erano riusciti ad inserirsi, furono gli antichi amici Macchiaioli che lo considerarono semplicemente un traditore. Ha fatto eccezione colui che dei suoi brillanti esordi fiorentini era stato un testimone, il grande Diego Martelli, sodale di Degas e ammiratore degli Impressionisti. Il suo genio camaleontico e imprevedibile gli era sempre piaciuto. Continuerà ad apprezzarlo e a rimanere sedotto dal suo virtuosismo, anche quando diventerà interprete di un mondo alla rovescia dove i valori non contano più. Quello di Martelli era un «avvertimento agli italiani per capire che Parigi non è poi il paese tipo dove il merito sia più che altrove apprezzato, ma è il paese che copre di brillanti e di carezze una attrice, paga un quadro a Tizio centomila franchi e ne rifiuta un altro a Caio che potrebbe avere per venticinque, senza stabilire altro criterio alla enorme differenza all’infuori di quello della Moda, l’unica vera padrona di questo pazzo cervello del Mondo».

Alla fine degli anni Ottanta sulla popolarissima «Illustrazione Italiana» Boldini veniva segnalato come «un grande artista italiano, all’apogeo della sua carriera, celebre a Parigi, Londra, New York, le cui tele sono ricoperte d’oro», ma pressoché sconosciuto nel suo paese d’origine dove non aveva più esposto un’opera. Né si era curato più di tanto che si parlasse di lui. Era infatti tutto concentrato a proporre la sua nuova maniera in una ribalta cosmopolita dove aveva riversato una produzione anche quantitativamente prodigiosa. Tanto che risultava «difficile – osservò un critico – enumerare» le sue opere o stabilire la loro ubicazione, dato che a «Londra, a Nova York, a San Francisco non c’è galleria di grido che non abbia dei suoi paesaggi, dei suoi ritratti, o dei suoi quadri di genere». In realtà, il paesaggio e il “genere”, cioè quelle richiestissime scenette in costume per lo più ispirate a un Settecento galante prodotte freneticamente su ordinazione del famigerato mercante Goupil, appartenevano al passato. Aveva infatti cambiato completamente stile, passando dalla virtuosistica minuzia di questi quadretti ai grandi formati di ritratti la cui forza derivava dalla originale unione tra l’estrosità estemporanea, tutta moderna, del non finito e il riferimento agli antichi maestri. Per celebrare i protagonisti, soprattutto le donne, che da tutto il mondo si riunivano per officiare i riti della mondanità nella grandiosa scena parigina, aveva elaborato una formula davvero vincente basata su una singolare ritualizzazione della tradizione della ritrattistica aulica da Van Dyck a Velàzquez a Gainsborough a Goya e a Reynolds reinterpretata con uno stile personalissimo, dove si confrontava con i contemporanei, come Manet e Sargent, Degas e Whistler…

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